Un ricchissimo sito paleontologico nel parco delle Orobie Valtellinesi è stato scoperto anche grazie ai ricercatori Dipartimento di Scienze della Terra e dell'Ambiente dell'Università di Pavia.
I ricercatori pavesi Un contributo, quello del gruppo formato dal professore Ausonio Ronchi e dai laureandi Marco Cattaneo e Stefano Bonizzoni e dal dottorando Rudy Scarani, fondamentale. I ricercatori dell'ateneo pavese erano nel team che ha scoperto un sito che conserva orme di anfibi e rettili ma anche piante, semi, impronte di pelle e persino gocce di pioggia fossilizzate.
Un intero ecosistema fossilizzato su lastre di arenaria a grana finissima – che hanno conservato dettagli inimmaginabili – è rimasto nascosto fra le vette alpine per 280 milioni di anni (quando non erano ancora comparsi i dinosauri).
Ora la riduzione della copertura glaciale dovuta al cambiamento climatico lo sta riportando alla luce, rivelando incredibili tracce di vita e di natura preistorica: impronte di dita sottilissime, scie di lunghe code flessuose, increspature di onde sulle rive di antichi laghi e addirittura gocce di pioggia cadute sul fango, prima che diventasse pietra incastonata nelle pareti delle Alpi Orobie Valtellinesi.
I primi reperti – mostrati ieri per la prima volta al Museo di storia Naturale di Milano dove sono stati mostrati per la prima volta alcuni massi – sono stati recuperati in alta quota con una operazione spettacolare compiuta con un elicottero. Nella prima traccia fossile si imbatte Claudia Steffensen, una escursionista di Lovero (Sondrio), mentre percorre un sentiero della Val d'Ambria, nel comune di Piateda, a 1700 metri di quota.
Lo racconta all'amico Elio Della Ferrera, fotografo naturalista, che scatta alcune foto e le invia a Cristiano Dal Sasso, paleontologo del Museo di Storia Naturale di Milano, che contatta due colleghi specialisti in sedimentologia e icnologia: Ausonio Ronchi, dell'Università di Pavia, e Lorenzo Marchetti (Museum für Naturkunde - Leibniz Institute for Research on Evolution and Biodiversity, Berlino).
Della scoperta vengono subito informati il Parco delle Orobie Valtellinesi, nel cui territorio ricade l'area dei ritrovamenti, e la competente Soprintendenza. Grazie a sopralluoghi successivi, a partire dall'estate del 2023 Elio Della Ferrera e i ricercatori fotografano e mappano centinaia di tracce fossili, che affiorano ancora in situ a quasi 3000 metri di quota sulle pareti verticali del Pizzo del Diavolo di Tenda, del Pizzo dell'Omo e del Pizzo Rondenino, nonché negli accumuli di frana sottostanti. Su massi stratificati grandi anche qualche metro appaiono così orme di tetrapodi (rettili e anfibi) e invertebrati (insetti, artropodi), spesso ancora allineate a formare "piste", ovvero camminate che avvennero nel Permiano, l'ultimo periodo dell'Era Paleozoica.
«Le impronte sono state impresse quando queste arenarie e argilliti erano ancora sabbie e fanghi intrisi di acqua, ai margini di fiumi e laghi che periodicamente, secondo le stagioni, si prosciugavano – precisa Ausonio Ronchi, docente all'Università di Pavia di stratigrafia e sedimentologia di successioni continentali tardo-paleozoiche che ha guidato il gruppo dei ricercatori pavesi in Valtellina – Il sole estivo, seccando quelle superfici, le indurì al punto tale che il ritorno di nuova acqua non cancellava le orme ma le ricopriva di nuova argilla formando uno strato protettivo». —
Pier Angelo Vincenzi