«Viandante, il sentiero non è altro che le orme dei tuoi passi. Viandante, non c'è sentiero, il sentiero si apre camminando» avvertiva Antonio Machado, poeta spagnolo intimista e visionario. In questo solco si incammina e si colloca un libro prezioso e luminescente firmato dall'architetto Claudio Gasparotti e pubblicato da «La Quadra» di Tino Bino nelle sue amabili plaquette blu: «Il Sentiero. Legno, pietra, acqua e poi ferro»
Gasparotti, camuno, progettista riconoscibile per il tratto e per l'uso sapiente dei materiali che mettono in dialogo le sue creazioni con il paesaggio e il territorio, è stato fra gli artefici (prima teorici e poi pratici) del Parco dell'Adamello di cui ha sostenuto la necessità in tempi in cui farlo - correvano gli anni Settanta - richiedeva capacità di visione e un poco di ardimento.
Frequentatore dei sentieri che percorrono il Parco, durante i percorsi in solitaria o in compagnia Gasparotti osserva, legge le rughe del terreno e gli intrichi delle radici, le tracce minerali e i mutevoli tracciati idrogeologici, i segni lasciati dall'uomo in tempo di pace e in tempo di guerra.
Il terreno calpestato con il Vibram degli scarponi è la sua musa, l'innesco dei suoi pensieri. Durante le pause Gasparotti scatta fotografie, prende appunti che spedisce dal telefonino a se stesso sotto forma di mail: in quota non c'è campo, e così questi appunti ascensionali gli arrivano nella casella di posta tutti assieme, al ritorno a fondovalle. Riuniti e cuciti durante il lockdown, irrobustiti da note a fine testo e da una bibliografia adeguatamente folta, quegli appunti formano ora il corpus del libro, impreziosito dalla prefazione dotta e partecipe di Franco Brevini.
Gasparotti attinge da una letteratura alpinistico-naturalistica che va da Julius Payer a Wilhelm Salomon Calvi, da Prudenzini a Berruti. Si alimenta delle suggestioni della letteratura di cammino, da Thoreau a Chatwin, da Nietsche (che sosteneva che i grandi pensieri nascono camminando) a Onfray.
L'idea di Natura che circola nelle sue pagine rimanda un po' a Lucrezio e molto a Spinoza e alla sua «Natura naturans», che si rigenera continuamente a da sé trae linfa per infinite mutazioni. Una Natura che Gasparotti osserva con lo sguardo chino a terra dell'alpinista, non del romantico contemplatore di paesaggi. Il suo è uno sguardo tecnico, progettuale, scientifico, ma anche umanistico, percorso da continue domande sul ruolo dell'uomo dentro questa natura.
Guidato da un pensiero divagante e associativo, Gasparotti non perde tuttavia la traccia del suo sentiero, ora ripido ora piano, che lo porta dal bosco, dal regno vegetale, a quello in cui la roccia (dominanza tonalite) rimane nuda, nelle morene e nei ghiaioni, su fino alle aree plasmate dall'acqua e dal ghiaccio, su fino alle quote dove guerra bianca e ingegneria idraulica hanno modellato la montagna con il ferro come «un'opera d'arte involontaria».
Dai sentieri più bassi fino alle quote più alte si è alle prese - in definitiva - con quella che Gilles Clément chiama «arte senza statuto», ovvero «arte senza parole, senza attenzioni, senza mercato e senza un prezzo, addirittura senza sguardi"»
La meta del sentiero di Gasparotti non è una vetta ma un passo, perché le montagne non sono barriere ma vie di comunicazione che favoriscono l'incontro, e quello a cui aspira l'autore è «l'esperienza del navigante quando varca uno stretto e vede le nuove terre che cercava».
Anche l'architettura, la disciplina professionale di Gasparotti, esce trasformata dal percorso e dalle riflessioni che l'hanno scandito. La progettazione diviene «una sintesi nella quale la natura, ambiente e sostenibilità siano i committenti dell'opera».
Il sentiero ha lasciato il segno. Non è stato percorso invano.